Per le persone che operano a vari livelli in un’organizzazione, in che modo l’esperienza Covid-19 ha cambiato la modalità di esprimere al meglio le proprie capacità? Affermare che il lavoro sia un’occasione di espressione e quindi di innovazione è un’idea rimasta intatta o va ripensata diversamente?

Il lavoro al tempo della pandemia ha certamente fatto emergere degli effetti collaterali legati alla remotizzazione forzata. Ha però consentito di scoprire modi nuovi di fare le cose, in un contesto caratterizzato da molti vincoli. Proprio questi ultimi sono stati, a mio parere, l’elemento che ha costretto un po’ tutti a riscoprire risorse inespresse, sia di natura personale sia di tipo organizzativo. Il lavoro come opportunità di esprimere tutte le proprie capacità è sempre stata una questione cruciale, talvolta influenzata da condizioni organizzative, ambientali e culturali.

Finita l’emergenza avrebbe poco senso riproporre o addirittura ricercare la “vecchia” normalità di un tempo. Alla luce dell’esperienza di quest’ultimo anno, sono convinto che il concetto stesso di innovazione debba cambiare significato. Meno costretta all’interno di schemi precostituiti e più in grado di far leva sulle capacità che stanno, spesso nascoste, fra le pieghe delle organizzazioni.

Parlando di talento, lei ha scritto una cosa molto interessante: talenti mediocri hanno bisogno di direttori, grandi talenti hanno bisogno di abilitatori. Inoltre sostiene che «il talento non basta e la fortuna non esiste, il talento non si forma, si sfida». Per evitare sprechi di risorse e aiutare le persone a trovare il proprio “perché”, in che modo le imprese e gli HR dovrebbero ripensare il loro modo di gestire le idee? Quanto spazio va lasciato alla sperimentazione? Quanta fiducia alle intuizioni dei dipendenti?
Sono convinto che le imprese e, in generale, chi ha responsabilità di persone debbano prendere una posizione su questo. La tendenza alla microgestione è sempre stata un tratto talvolta presente nelle organizzazioni, attuata in particolare da manager che non riuscivano a gestire le cose senza avere il controllo diretto e a vista. Uso non a caso il passato perché se c’è una parola che ha caratterizzato questo anno e mezzo, passato più o meno lontano dai tradizionali luoghi di lavoro, è proprio “fiducia”. Tutti abbiamo dovuto dare più spazio e autonomia a collaboratrici e collaboratori che in molte situazioni non erano più fisicamente presenti in ufficio. Oggi le imprese hanno un impellente bisogno di ripensarsi per affrontare il nuovo quadro che abbiamo di fronte, che spesso è indecifrabile. Servono quindi approcci sperimentali dove il contributo delle persone è fondamentale. È un modo per fare leva sul talento latente che porta a fondare un nuovo patto fra azienda e persone. Ciò non consente solo di accelerare i processi di innovazione, ma costituisce la base per cambiare la cultura e far diventare la propria impresa un posto ancora più bello dove lavorare. Dove la fiducia non è una concessione temporanea indotta dagli eventi, ma un combustibile in grado di aumentare la spinta vitale a reimmaginare il mondo che ci aspetta.

Il focus di questo numero di EVOLVE coincide con il tema che lei ha affrontato nel suo libro “Startupper in Azienda”: not just the company, this is your company. Spesso nelle aziende ci sono persone con qualità imprenditoriali, ma difficilmente riescono ad emergere. Oltre ai sopracitati spazi di espressione creati dalle aziende, in che modo le persone – per esprimere il loro potenziale – devono essere pronte a occupare questi spazi? Quanto impegno e coraggio serve per vincere il timore di essere giudicati?
Se l’azienda è disposta a creare questi spazi in modo autentico e non episodico, siamo a metà dell’opera. A questo punto le persone hanno due possibilità: rimanere in osservazione passiva (perdendo molte opportunità di crescita) oppure “uscire allo scoperto” e utilizzare questi spazi. Per fare questo passo serve certamente coraggio e impegno, perché l’idea di andare oltre il proprio mandato non è culturalmente condivisa da tutti nelle organizzazioni. Oggi nelle aziende, specialmente in quelle molto strutturate, si pone il tema di come rendere visibili i talenti che le abitano. Lo chiedono le persone che spingono dal basso per agganciare l’ascensore professionale, ma ne ha bisogno anche il vertice strategico per accompagnare in modo nuovo la crescita dell’impresa. Dobbiamo allora guardare a questo impegno in logica reciproca: dal lato delle persone non preoccuparsi di sentirsi giudicati, dal lato aziendale imparare a non giudicare con gli approcci tradizionali.

Quando lei parla di “cassetta degli attrezzi” per trasformare problemi e sfide in soluzioni concrete, a che cosa si riferisce? Può farci qualche esempio?
La cassetta degli attrezzi di cui parlo è fatta di regole del gioco per gestire lo spazio di espressione e di strumenti che, nel caso dell’esperienza che stiamo conducendo da quattro anni in Intesa Sanpaolo, è costituita da approcci metodologici come Design thinking e Lean startup. Conoscerli consente non solo di trasferire le loro caratteristiche di sperimentalità, iteratività, agilità e concretezza nella realtà lavorativa, ma anche di utilizzare un approccio comune all’analisi dei problemi, all’individuazione e alla validazione delle ipotesi di soluzione. Oltre a questo c’è però un tema preliminare molto più rilevante da affrontare; riguarda la definizione del livello di ambizione e soprattutto la scelta di un modello di intrapreneurship coerente con gli scopi che l’azienda intende perseguire quando pensa di avviare iniziative come queste. Il mio consiglio è quindi certamente di investire sulla conoscenza degli strumenti perché creano le condizioni per generare una maestria e una mentalità applicabile nei diversi contesti professionali, ma di non trascurare la coerenza rispetto alle finalità.

Chi è il cosiddetto “intrapreneur” e perché il suo ruolo è importante?
È il collaboratore o la collaboratrice del futuro perché incarna tutte le caratteristiche (spirito d’iniziativa, assunzione di un rischio, immaginazione, collaborazione, networking, resilienza di fronte ai fallimenti, ecc.) che sono sempre più le competenze di chi avrà (e dovrebbe avere già oggi) il compito di guidare i diversi gangli dell’azienda. Il tema è importante non solo per i suoi risvolti manageriali, ma anche perché tutto ciò può creare le condizioni per dare alle organizzazioni nuove forme, meno legate alla logica gerarchica che abbiamo ereditato dalla fabbrica fordista e sempre più a una rete composta da nodi intelligenti che fanno leva sull’autonomia e sulla collaborazione, sprigionando così tutta la potenzialità esistente.

Ultima domanda di backstage. Il suo libro è molto particolare, non solo nei contenuti ma anche nella struttura grafica, progettata per una lettura a più livelli. Scrivendolo, ha pensato di rivolgersi soltanto a CEO e manager? E se – come ha detto – non rappresenta uno “sfoggio di competenze”, di fatto in cosa si è trasformato?
Non ho pensto solo ai decisori d’azienda, anche se rappresentano un destinatario importante. Ho pensato anche alle persone interessate a far emergere e valorizzare il proprio potenziale nascosto per cercare di cambiare il loro destino professionale, insieme a quello delle organizzazioni per cui lavorano. Ho, per la verità, scoperto recentemente un’altra tipologia di lettori: i giovani che più che imparare come si genera una startup, hanno bisogno di ragionare e agire in modo imprenditoriale nella ricerca del lavoro futuro. Il dialogo che sto sviluppando in questi mesi con imprenditori, manager, professional e giovani, va nella direzione che avevo immaginato per questo libro: fornire un contributo al dibattito su come le aziende con le loro persone dovrebbero attrezzarsi per affrontare in modo consapevole le sfide complesse del tempo che viviamo. E che ci apprestiamo a vivere terminata questa emergenza.

Roberto Battaglia
Transformation Lead of Intesa Sanpaolo's IMI Corporate & Investment Banking Division. Battaglia has gained significant experience in the field of Personnel, Organization and Innovation at several banking companies. In the last years of his professional career at Intesa Sanpaolo, he directed the initiatives Group Training and the Culture and Development of Innovation within the Innovation Center.