«La tragedia della pandemia? Ha suonato la sveglia a chi non ha capito che il lavoro è cambiato e che servono categorie analitiche completamente nuove per disegnare il nuovo contesto». Non è uomo di frasi edulcorate Marco Bentivogli, tra i massimi esperti in Italia sulle tematiche del lavoro, passato alla storia del sindacato come il principale fautore della rivoluzione Industria 4.0. EVOLVE lo ha incontrato per fare il punto sull’impatto del Covid nelle imprese e per individuare soluzioni in grado di riqualificare il capitale umano in una logica di cultura imprenditoriale. Al netto – questo è emerso nell’intervista – di una trasformazione digitale impellente che, sull’onda della pandemia, costringerà il sistema produttivo ad accelerare sull’adozione di tecnologie 4.0 e sulla necessità di sistemi di automazione più avanzati.

«Il lockdown, le chiusure, il lavoro a distanza – spiega Bentivogli – hanno messo in luce alcune vulnerabilità finora sconosciute alle imprese. Se guardiamo alla gestione del lavoro agile (spazi comuni, distanziamenti, smart working) dobbiamo capire che ci troviamo di fronte a una grande sfida di sostenibilità per riprendersi la vita, il suo tempo, il suo spazio e costruire un lavoro migliore. Il rapporto fra manager e lavoratore si ridisegna intorno al tema della fiducia, in quanto non più fondato sulla presenza fisica e sul numero delle ore di servizio, ma sui risultati ottenuti. I concetti di autonomia e libertà iniziano a sostituire la tradizionale cultura del “controllo”, ancora oggi prevalente in gran parte delle aziende. Affrontiamolo senza indugio questo processo di innovazione dell’impresa e dell’organizzazione del lavoro, delle città, della vita: se questa sfida coinvolgerà tutti, approderemo insieme a un cambiamento prima culturale e poi organizzativo».

Nel suo libro “Indipendenti: guida allo smart working” pubblicato nell’agosto del 2020, l’autore metteva in luce i vantaggi del lavoro agile senza però trascurare i pericoli di un utilizzo improprio: «Lo smart working è un lavoro “intelligente” perché valorizza la reciprocità e trasferisce quote di responsabilità e libertà alle persone, favorendo il loro benessere e la produttività. Ma l’emergenza Coronavirus sta rappresentando uno spartiacque unico, un crocevia di grandi trasformazioni: quelle che l’Italia non è ancora stata in grado di cogliere appieno, specie sul fronte dell’innovazione digitale. Lo smart working d’altronde non riguarda solo i lavoratori: cambierà l’impresa, la mentalità, le gerarchie, le culture organizzative. Da opportunità ora è diventato una necessità urgente».

Nel panorama delle aziende, l’effetto spartiacque ha reso evidente la differente capacità di ripresa tra chi si era mosso in anticipo rispetto ai cambiamenti in corso (è il caso del gruppo Maire Tecnimont che dal 2016 ha iniziato a parlare di smart working, facendosi trovare pronta con un modello flessibile e tecnologicamente già testato) e chi invece aspetta sempre gli eventi per muoversi e cambiare. Dice Bentivogli: «Tra pronte e non pronte, molte imprese hanno velocemente maturato l’idea di approntare nuove cabine di regia interne per gestire le crisi. Iniziare a lavorare su resilienza e stabilità scongiurerà possibili impatti e blocchi, sia lungo la filiera che nell’ambito produttivo vero e proprio. In questi mesi la pandemia ha accelerato la ricerca e la messa a punto di soluzioni cloud, intelligenza artificiale, blockchain, realtà aumentata, IoT. In Asia, dove la seconda ondata ha avuto minori impatti economici rispetto all’Occidente, le imprese hanno operato una grande accelerazione tecnologica per mantenere la governance della filiera e non dipendere dalla loro supply chain. Multinazionali come Hyundai, Kia, Toyota hanno capito che era il momento di fare magazzino in vista della ripartenza: questo gli ha permesso di non risentire della carenza di materie prime e componenti (come i microchip), evitando così blocchi alla produzione. A livello generale, l’accelerazione è avvenuta anche in settori che erano lontani dal digitale: penso a imprese ancora gestite secondo un modello fordista, basate sul paradigma del controllo. Per fortuna sta cambiando l’intera idea di produttività e si inizia a investire in base al cosiddetto “ingaggio cognitivo” delle persone. Stiamo assistendo a un cambiamento della cultura organizzativa nel suo complesso, dove le gerarchie vengono ricostruite in funzione del lavoro che cambia. Organizzando spazi diversi per smart e co-working, l’azienda diventa il luogo che genera e fertilizza gli ingredienti necessari a valorizzare l’identità del lavoratore: ovvero libertà, responsabilità, autonomia, fiducia. Se mancano questi ingredienti, è come fare la pizza senza la farina...»


Proprio il settore dell’Internet of Things è di grande supporto per lavori industriali da remoto, con benefici sia per le figure di staff che per i tecnici in prima linea. «In Nokia Italia – dice Bentivogli – fino a un mese fa non solo quasi tutti gli impiegati erano in smart working. Anche il 95% dei tecnici di laboratorio che operano sugli apparati dei nuovi 5G poteva lavorare grazie a una postazione tecnica da remoto. Il caso più clamoroso è forse quello di alcune miniere cinesi. A settembre scorso si è saputo che in Henan, nella Cina centrale, anche i minatori avevano iniziato a lavorare senza più calarsi nei cunicoli, guidando i macchinari a distanza con un sistema basato su telecomunicazioni 5G. Va da sé che per un minatore cambia tutto se può iniziare a operare da postazioni protette e sanificate, mantenendo il distanziamento sociale e replicando i comandi originali con barre di comando e pannelli di controllo simili a joystick... Da pesantemente usurante, il lavoro diventa più sostenibile anche dal punto di vista fisico».

“In questi mesi la pandemia ha accelerato la ricerca e la messa a punto di soluzioni cloud, intelligenza artificiale, blockchain, realtà aumentata, IoT (the Internet of Things)”
- Marco Bentivogli

Umanesimo del lavoro e azienda comunitaria

Per gran parte del capitalismo internazionale, si intuisce dalle parole dell’ex segretario generale dei metalmeccanici, si sta giocando la partita più importante degli ultimi decenni. La pandemia ha costretto tutti a riflettere intorno a un cambio radicale della cultura d’impresa, consapevoli che le operazioni di facciata non reggono più a fronte di un reale e urgente bisogno di miglioramento delle realtà produttive. «È come per la sostenibilità – dice Bentivogli – non bastano maquillage superficiali o normali aggiornamenti, troppo spesso scambiati per “innovazioni di processo”. Come scriveva Jared Diamond nel suo “Armi, acciaio e malattie”, penso che non esista innovazione senza discontinuità, che nella gradualità non c’è vero cambiamento perché gli effettivi processi di innovazione sono molto “disruptive”. E in un lavoro, come dico spesso, a “umanità aumentata” serve un “umanesimo industriale” che accolga questo tipo di professionalità. Cosa intendo? Trattare le persone da adulti, farle stare in un ambiente che favorisca le sfide, lavorare a fondo su un contesto generativo di responsabilità e autonomia e su questo costruire relazioni sociali comunitarie. D’altronde cos’è che ci distingue di fronte a robot, macchine e algoritmi? La nostra componente umana, il pensiero strategico, critico, laterale: tutte quelle capacità molto umane e innovative di saper uscire dagli schemi abituali».


Il discorso scivola sulla riscoperta della dimensione di “Azienda Comunitaria” come elemento di produttività: l’impresa che sa riscoprirsi comunità, sa unire i punti, coordinare le proprie energie interne senza sciuparle, custodisce meglio di altre il capitale umano valorizzandone il ruolo e aumentando la qualità delle mansioni distribuite. «Quello della partecipazione dei lavoratori alle strategie aziendali – aggiunge Bentivogli – è un tema non più rinviabile. Basta guardare al Nord Europa, dove i vertici non ascoltano soltanto gli azionisti, ma registrano e analizzano le voci anche dei lavoratori organizzati: alla fine tutti capiscono che è un gioco win-win, dove sia i manager che i dipendenti crescono nel loro senso di appartenenza imprenditoriale all’organizzazione che li accoglie. Ci sono ricerche, come quelle svolte dal Max Planck Institute, che attestano l’importanza della partecipazione condivisa: laddove top manager e sindacato interno lavorano insieme, aumenta la crescita e la qualità del lavoro. È ovvio: il sindacato è meno rivendicativo perché è informato, non è costretto ad apprendere dai giornali quello che succede nella propria azienda. Si alza il punto di incontro tra impresa e lavoro organizzato. Lavoratori e manager si sentono responsabilizzati al pari degli azionisti, non solo in chiave di sostenibilità, ma anche su temi finanziari e industriali per mantenere l’azienda competitiva e quindi redditizia sul mercato».


L’idea di impresa comunitaria in Italia aveva preso forma già negli anni Cinquanta con le idee di Adriano Olivetti. «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?». Così affermava Olivetti nel discorso ai lavoratori pronunciato in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento a Pozzuoli nel 1955. Parole riconducibili a un ideale di impresa capace di porsi, in modo diverso dal capitalismo e dal socialismo, i problemi dell’uomo e della società. Un’impresa in grado di costituire una realtà unica con il territorio e con i lavoratori nella sostanziale condivisione delle finalità del lavoro della fabbrica e nella piena fiducia nel contributo stesso di ogni donna e di ogni uomo, alimentato da valori spirituali e culturali. Si tratta della centralità, nella prospettiva olivettiana, della persona e della comunità. Aggiunge Bentivogli: «I nostri imprenditori e manager dovrebbero rileggere ciò che scriveva Olivetti ispirandosi al filosofo francese Jacques Maritain o ad altri pensatori come Emmanuel Mounier e Denis de Rougemont. In quelle pagine c’è tutto il significato del “senso” che diamo al lavoro, della motivazione che ci spinge ogni mattina ad andare in fabbrica o in ufficio a svolgere il nostro compito per raggiungere degli obiettivi di squadra. Già allora si era capito che un’impresa seria non riesce a creare un vero senso di comunità aziendale se continua a focalizzarsi soltanto sugli incentivi economici. È il clima aziendale a fare la differenza, l’attenzione ai rapporti e alla solidarietà, la possibilità di dare ai giovani e ai talenti di ogni età nuove opportunità dinamiche e non strade chiuse e vincolate. Ho prove evidenti che le nuove generazioni stiano maturando un nuovo approccio al lavoro: per loro conta molto la valorizzazione dell’impegno e del merito, il sentirsi una sorta di brand personale che gioca all’interno di una squadra più grande, con una visione unica e una missione che dà senso al quotidiano. Anche per questo la prospettiva personalista comunitaria resta la più avanzata».

Solo se noi “potenziamo” gli esseri umani, anche con grandi ed efficaci progetti di riqualificazione, possiamo consentire alle persone di evitare di finire tra gli “scarti” del progresso, diventando invece loro stessi il centro della trasformazione»
- Marco Bentivogli

Capovolgere i vecchi modelli formativi

Un ultimo fronte scoperchiato dalla pandemia è quello dell’arretratezza sia del sistema scolastico che di gran parte dei modelli di formazione professionale. In un processo di cambiamento sempre più veloce, fra le ricette utili per evitare che l’innovazione non lasci vittime per strada, il cavallo di battaglia di Marco Bentivogli si chiama diritto soggettivo alla formazione. «A volte, per incalzare la discussione, sostengo che bisognerebbe tassare l’ignoranza. In realtà è per sottolineare come il diritto soggettivo alla formazione dovrebbe essere inserito in tutti i contratti di lavoro, anche in quelli più brevi, come un vero e proprio diritto delle persone. Mettiamo da parte una volta per tutte i vecchi sistemi di inquadramento professionale, con mansioni superate e non riscontrabili fra i lavoratori del terzo millennio. Inseriamo elementi e occasioni di maggiore cooperazione, dove le persone capiscono che nell’ambito di un team esiste un percorso preciso per la loro crescita. Dove passare dalle mansioni ai profili serve a poco, bisogna mettere da parte mansionari e profili e costruire matrici tridimensionali che si avvicinino ad ogni persona. Non solo, è conveniente spingere i lavoratori verso la competizione interna? Sono dinamiche superate, che non generano passione ma al contrario deprimono le energie. Solo se noi “potenziamo” gli esseri umani, anche con grandi ed efficaci progetti di riqualificazione, possiamo consentire alle persone di evitare di finire tra gli “scarti” del progresso, diventando invece loro stessi il centro della trasformazione».


Il dibattito è aperto, testimonia Bentivogli, su come generare nuovi modelli formativi e di apprendimento. Possibilmente non uguali per tutti ma sartoriali, visto che le dinamiche di produzione fordista stanno lasciando il passo all’industria 4.0. «Il nostro sistema scolastico è superato, la nostra formazione professionale è ancora legata al pensiero fordista. Quando vado in Confindustria mi viene voglia di stracciare quei cataloghi formativi: non è come andare in pizzeria e scegliere da un listino “competenze digitali” o “saldatore professionale”. È un processo da adattare alle persone, va capovolto il metodo partendo da un assessment delle competenze delle persone: oggi esistono sistemi digitali in grado di elaborare il posizionamento di una risorsa anche più volte all’anno. Dopodiché le analisi dei fabbisogni formativi serviranno a colmare i gap e a inserire le persone in percorsi tagliati su misura. Quando tutto questo viene messo a sistema e confrontato con la strategia d’impresa, allora si determina un’offerta formativa in linea con i nostri tempi».

C’è ancora il tempo di parlare di reskilling formativo, tema ricco di criticità come i precedenti. «Non possiamo ignorare l’adattività verso le persone – dice Bentivogli – Se prendo un “ragazzo” di 64 anni e lo risbatto in aula a fare formazione, anche se di buona qualità, lui la vivrà malissimo perché sono 45 anni che non tornava a sedersi dietro un banco... In Italia stentiamo a capire che istruire le persone con queste modalità è inefficace. Per trattenere i talenti e i manager che hanno ancora molto da dare, non dobbiamo instradarli su un binario morto ma farli sentire in un luogo che li aiuterà a crescere e a certificare le competenze acquisite. La riprova è in quegli ambiti dove il ricambio generazionale si è rivelato traumatico: prendiamo il cosiddetto settore “bianco”, quello degli elettrodomestici, dove l’Italia aveva una leadership internazionale. Dopo due generazioni che hanno fatto l’impero, la terza lo ha... dilapidato perché si è trovata schiacciata su due fronti antiquati: da una parte il vecchio modello gerarchico dell’imprenditore di famiglia, accentratore e poco propenso a delegare; dall’altra un sistema di business school che non prepara fino in fondo a governare le nostre imprese medio-grandi. Risultato finale? Un corto circuito organizzativo che non si adegua né al mercato né alla concorrenza».



Viene da chiedersi allora se le imprese che crescono in modo non lineare – modello start up californiane, con approccio Data-Driven – sostituiranno in blocco quelle tradizionali. «Non necessariamente – conclude Bentivogli – perché la sfida è quella di innestare elementi “smart” senza snaturare il nostro patrimonio aziendale. Prendendo spunto da organizzazioni agili e competitive, che sanno maneggiare l’innovazione e sono pronte al vento dei cambiamenti, dobbiamo osservare e mutuare alcuni modelli di governance e gerarchia interna. A quel punto capiremo meglio come la flessibilità dei manager diventi un vero e proprio punto di forza dell’impresa stessa. Una base per diversificare il business e contaminare positivamente l’intero ecosistema. La Chrysler e la Fiat che furono di Lee Iacocca e Gianni Agnelli oggi possono fondersi anche grazie al fatto che tra poco tempo non saranno più solo aziende produttrici di automobili. Il vero business saranno i servizi che attraverso dati e connessione trasformeranno l’auto in una piattaforma come fa già Tesla – in virtù di questa nuova experience dei viaggiatori di un’auto. L’industria evolve mettendo insieme la meccanica e il digitale con una certezza: il bit per molti anni profumerà ancora di olio minerale o sintetico». Perché dunque fare ricerca e investire soltanto su motori e accessori, quando a bordo di un veicolo green a guida autonoma il “pilota” potrà dedicarsi in contemporanea a mille altre cose?

Marco Bentivogli
Fino a luglio del 2020 è stato segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (FIM CISL). Dopo oltre un ventennio di attività sindacale – nel quale ha seguito importanti vertenze industriali (FCA, Alcoa, Ilva, Whirlpool) e le trattative del contratto dei metalmeccanici – nel settembre dello scorso anno Marco Bentivogli ha dato vita, insieme al professor Luciano Floridi, all’associazione Base Italia, una start-up civica per promuovere la partecipazione e l’impegno civile, laboratorio di studi e ricerche in materia di lavoro, assistenza, sicurezza, salute, istruzione e formazione, ambiente, finanza ed economia. Con lo stesso obiettivo – sviluppare e promuovere le varie potenzialità del Paese – collabora con testate (Foglio, Repubblica, Fortune, Sole24Ore) e ha scritto libri tra cui «Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato» (2016), «Contrordine Compagni, manuale di resistenza alla tecnofobia», «Europa, non rimanere da sola!», «Fabbrica Futuro» (tutti nel 2019). L'ultima pubblicazione è del 2020: «Indipendenti: guida allo smart working». È componente della Commissione per l’elaborazione di una strategia sull’Intelligenza Artificiale e sullo stesso tema del Gruppo di lavoro della Pontificia Accademia per la vita.