Quando la sua curva del valore converge con quella dei concorrenti, un’azienda sarà probabilmente intrappolata nell’oceano rosso della concorrenza spietata. Di fatto, cercherà di battere i concorrenti sulla base del prezzo o della qualità, dimenticandosi di quella domanda – suggerita dagli autori del best-seller “Strategia Oceano Blu” – che sfida la logica strategica e i tradizionali modelli di business: «Quali fattori, mai offerti e sconosciuti al mio settore, dovrebbero essere creati? Quali saranno le fonti totalmente nuove affinché la mia azienda possa creare valore per gli stakeholder, generando nuova domanda e spostando il pricing strategico?».


Complice il clima estivo e una inusuale location – la terrazza della sede romana del Gruppo – da queste premesse sulla visione d’impresa è partita un’intervista densa di spunti strategici con l’amministratore delegato di Maire Tecnimont, Pierroberto Folgiero. «L’imprenditorialità è l’anti burocrazia. In un’organizzazione con la giusta cultura, ognuno agisce come se l’azienda fosse di sua proprietà. In questo senso, la nascita di NextChem è un perfetto esempio di imprenditorialità».

Più volte lei ha tratteggiato la figura “mitologica” dell’imprenditore-manager: metà “dreamer” e metà “doer”. In che direzione è giusto muoversi per contaminare reciprocamente le due identità?
«Gli imprenditori e i manager sono due figure complementari e indispensabili perché il primo deve seguire l’impulso ad aprire nuove strade da lui immaginate, mentre il manager dovrà organizzare al meglio i processi e la squadra per raggiungere con efficienza gli obiettivi condivisi. È un incontro tra la disciplina manageriale di chi ha studiato modelli organizzativi, e l’esperienza concreta dell’imprenditore che ha affrontato mille battaglie sul campo. L’imprenditore tuttavia è per antonomasia un individuo unico e originale, che deve trasmettere e moltiplicare visione ed una certa dose di coraggio ai manager per trasformarla in azione. L’imprenditorialità c’e quando si forma così una “persona collettiva” che si impossessa dell’azienda e la guida oltre la burocrazia, oltre la paura di cambiare, in altre parole, oltre la zona di comfort verso la crescita attraverso l’innovazione. Quando questo avviene, quando nei periodi di incertezza e difficoltà i vertici ed i team sanno aumentare quella che io chiamo “l’intensità manageriale”, quella giusta miscela di coraggio e concretezza, allora siamo in presenza di un livello alto di imprenditorialità. Se penso a Maire Tecnimont, associo tutto questo al lancio dei Mottos aziendali, avvenuto intorno al 2015, in un periodo in cui i manager hanno messo una grande passione nel metabolizzare queste suggestioni imprenditoriali, sapendole condividere con i propri team e trasformarle in azioni concrete».



I Mottos come bussola al centro di un’azienda che guarda al futuro. Da lì quindi possiamo partire per definire le caratteristiche dell’imprenditorialità?
Tutti i nostri MOTTOS rappresentano una diversa prospettiva del valore dell’imprenditorialità: saper cogliere le sfide, valorizzare le singole decisioni, l’essere adattivi e resilienti, combattere la burocrazia ed essere innamorati della complessità. Stiamo parlando di un grande esercizio di partecipazione, anche psicologica, ai processi aziendali. Se il comune denominatore è proprio quello dell’imprenditorialità, allora è utile definirne le caratteristiche. In questa chiave, un manager-imprenditore dovrà partire dall’avere una visione concreta, che è il primo dei tre pilastri. Una visione che guardi al di fuori della propria zona di comfort, che sia una spinta a capire cosa c’è oltre l’ostacolo e a superare l’esistente. Se un manager-imprenditore si sgancia dal timore dei vincoli, riesce a vedere anche degli scenari che non tutti vedono perché complicati da immaginare e raggiungere».



Poi ci sono le altre due caratteristiche.
La visione va condivisa e ovviamente realizzata, messa a terra. Condividerla non è mai un esercizio semplice, perché occorre coinvolgere e cooptare le persone che ti stanno intorno, colleghi, dipendenti, collaboratori, tecnici: ognuno dovrà tendere a immaginare un identico scenario di atterraggio. Se un leader sa farsi seguire partendo dalla visione, acquista carisma e troverà un gruppo sempre più ampio che inizierà a camminare insieme a lui. Poi però c’è la realizzazione concreta: se una visione resta senza esecuzione, è soltanto filosofia... Il manager-imprenditore vede le cose difficili, condivide obiettivi sfidanti e li trasforma in azione, grazie al suo coraggio e competenza manageriale. Di fatto, traccia una direzione, imposta una rotta condivisa e salpa al largo per la navigazione. Non c’è nulla di più emozionante per chi fa il nostro mestiere di veder trasformato un pensiero in azione è la forza dell’esempio».

Ecco perché, come recita uno dei Mottos, ogni micro-decisione conta.
«Proprio così. Il successo di un’organizzazione, specie quelle complesse che agiscono in mercati articolati come Maire Tecnimont, dipende da una lunga serie di sotto-obiettivi e task che vanno “atomizzate” in forma di decisioni. Più i risultati dipendono da tanti comportamenti sincronizzati e allineati nella visione, più è fondamentale l’imprenditorialità diffusa. Nel nostro settore, dove si parte da una grande mission critica che diventa una somma di attività critiche, per raggiungere traguardi di eccellenza occorre saper sviluppare, attaccare, affrontare, scaricare la visione con senso dell’imprenditorialità. Disseminando attitudini imprenditoriali, sappiamo che la frase “ogni micro-decisione conta” non è un pensiero vuoto di senso, ma un modo strategico di vivere l’azienda, di affrontare le decisioni critiche, le condizioni di incertezza, gli obiettivi sfidanti. È quello che io e il presidente Fabrizio Di Amato chiamiamo il “fuoco sacro” di vivere l’imprenditorialità. La cosa bella è che questa passione per gli obiettivi sfidanti è un tratto caratteriale che ci distingue e ci fa riconoscere uno con l’altro. Nel nostro business, di fronte a un bivio tra una via facile o una difficile, tra una scelta remissiva o una ambiziosa, tra un atteggiamento prudente o uno coraggioso, sappiamo già di dover procedere nella direzione più scomoda. Anche perché a quel punto non ci sarà una persona che ti indicherà la strada: dove c’è imprenditorialità diffusa, tutti i manager – anche senza parlarsi fra di loro – sanno dentro di sé quale sarà la direzione giusta da prendere»

Lei stesso ha dichiarato che un imprenditore vero è quello che sa condividere il successo. È uno step ulteriore?
«È un passo successivo ai tre pilastri di cui parlavo prima: condividere il successo significa allineare gli interessi di tutti. Quando in Maire Tecnimont siamo partiti con la fase di coinvolgimento del nostro capitale umano, abbiamo messo a disposizione strumenti e progetti per agevolare la condivisione dei risultati di business. Nel gruppo vige una visione sistemica dove il pensiero imprenditoriale accompagna tutta la dinamica con cui si sta in azienda, fino a condividere i risultati. È vero che nei confronti del manager-imprenditore – che dovrà rispondere di un progetto prendendosi dei rischi calcolati – di solito siamo piuttosto esigenti: è anche vero però che alla fine c’è sempre un sistema di gratificazioni. Un rischio senza ricompensa? Non è un rischio, così come una ricompensa senza rischio non ha molto senso... Nella visione emotiva della partecipazione al successo deve esserci spazio per alcuni sistemi di rewarding: se non remuneriamo le assunzioni di rischio, il cerchio non si chiude. Per citare un esempio (altri saranno approfonditi nell’intervista a Sara Frassine, pubblicata a pagina 18), il nostro piano di azionariato diffuso, che nel triennio 2016-2018 ha avuto un’adesione di oltre il 96% dei dipendenti coinvolti, è un progetto concreto per condividere i benefici aziendali».


In questo discorso, l’approccio burocratico dove si colloca?
«Al vertice opposto del senso di imprenditorialità. Quel modo particolare di stare in azienda, nel quale un manager si mette in ombra rispetto ai vincoli e agli ostacoli, è l’esatto contrario di ciò di cui stiamo parlando. Il burocrate opera pensando che l’azienda è sempre di qualcun altro, si blocca di fronte a input non ricevuti, si appella continuamente alle cause di forza maggiore. Ha presente i Mandarini? Nella Cina imperiale i funzionari cercavano di firmare meno atti possibili per non lasciare tracce della loro responsabilità. Della visione dei vertici non importava granché: il burocrate ha la sua visione, sa perfettamente come si dovrebbero fare le cose ma utilizza le sue competenze al contrario, per non fare nulla e lasciare tutto com’era. Va detto però che, per la mia esperienza, non esiste forma di burocrazia che blocchi un imprenditore a pensare e ad agire. Quando l’imprenditore viene imbrigliato nel gioco della burocrazia, reagisce sparigliando. Quando in una partita di bocce la situazione si incancrenisce, il burocrate è quello che lascia le bocce a terra perché ha paura di fare peggio, mentre l’imprenditore è quello che “sboccia”. Con un gesto diretto ed energico, rompe l’equilibrio!».



Tornando al rewarding, chi si cala nella logica del “Ride the Turnaround” riceve le giuste gratificazioni. Cosa accade per chi stenta a entrare nel flusso?
«Da noi il tema del “non lasciare indietro nessuno” è uno spirito di base vissuto ogni giorno a 360 gradi. Sarebbe una visione parziale quella che prevede ricompense solo per quelli “bravi” e non si occupa di quelli che possono incontrare difficoltà, come in tutti i mestieri del mondo. In opposizione all’approccio burocratico, in azienda è cresciuta con grande consapevolezza la cultura del feedback, del restituire osservazioni costruttive quando i risultati non arrivano. Ogni teorico del business sa che le performance sono spesso rappresentate da curve gaussiane: alti e bassi si alternano. Visto che statisticamente, in un campione medio-grande, per ogni over performer è presente un under performer, nei momenti “bassi” del ciclo di vita occorre attingere al codice sorgente della resilienza, a quell’ormone che avevamo messo in circolo nei momenti in cui si poteva giocare all’attacco. Questo fa parte del cosiddetto “sistema immunitario” di un’impresa, un tema cruciale che fa da spartiacque quando si è costretti ad arretrare in difesa per l’aumento dell’instabilità».

In tempi di pandemia, su cosa ci dobbiamo focalizzare rispetto al capitale umano?
«Come dicevo, nello spirito d’impresa “mediterraneo” la cultura del feedback di stampo anglosassone ha fatto un po’ fatica a emergere, più che altro per questioni ideologiche. Io credo invece che gli under performer non vadano messi da parte ma coinvolti, stimolati attraverso programmi di formazione e mentorship. L’obiettivo è aumentare l’attenzione, anche tramite i feedback, verso chi non ha sviluppato le attitudini imprenditoriali di cui stiamo parlando. È una logica “stop and coach”: quando ci sono difficoltà ci si ferma e, insieme a un referente specializzato, si riparte per lavorare al miglioramento del proprio percorso professionale. Nel periodo di pandemia, il sistema resiliente messo a punto da Maire Tecnimont ha permesso a tutti di rispondere con grande senso di responsabilità, sia verso i referenti esterni e sia verso colleghi, collaboratori, persone interne al team. Come dicevamo qualche mese fa, i nostri “champion” stanno risalendo la corrente come salmoni nei fiumi, diffondendo approcci adattivi e utilizzando con competenze sempre maggiori la tecnologia digitale che sta cambiando le nostre vite professionali».



L’esempio più tangibile che le viene in mente sul fronte della cultura imprenditoriale?
«Penso subito al lancio di NextChem, la società che in Maire Tecnimont opera nel campo della chimica verde e delle tecnologie a supporto della transizione energetica. Per approdare all’oceano blu della green chemistry abbiamo fatto crescere NextChem come una start up al nostro interno, immaginando scenari nuovi, in un mercato che nessuno ancora aveva visto né occupato. Quando poi la visione – allineata alla visione del Gruppo – è stata condivisa da un primo drappello di pionieri e messa a terra, abbiamo iniziato a lavorare in contesti complessi che avrebbero spinto in molti a desistere. Da parte nostra, in pieno spirito imprenditoriale, non abbiamo somatizzato l’incertezza, vivendola invece come uno spazio da trasformare in business. Nelle aziende che fanno un lavoro difficile, se c’è chi sviluppa questa capacità di vedere cose che nessuno vedrebbe – in luoghi, contesti e territori deputati a tutt’altro – e a livello di organizzazione si riesce a “sintetizzare” questo ormone della vision, allora si creano tutti i presupposti per ottenere risultati sorprendenti. Vuol dire che tutti i componenti del team sono allineati in questa ricerca di mercati blu. Tutti si sentono importanti allo stesso modo, così come l’assistente di segreteria che se non trova un posto sul solito aereo si attiverà in mille modi per far arrivare quel manager a destinazione in tempo. Alla fine torno spesso con la mente a una frase di Goethe: “Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere e magia”. È l’esempio di Elon Musk che da molti anni ha immaginato per primo un’azienda produttrice di auto elettriche come una società tecnologica e una casa automobilistica indipendente. È stato il primo a vedere questo scenario: poi come dice Goethe ha iniziato a muoversi al suo interno, secondo una profezia auto avverante. Ha iniziato a crederci, ad adattarsi alle difficoltà e a sfruttare le opportunità. Lui come moltissimi altri non aveva tutte le variabili sotto controllo: un imprenditore parte credendoci e strada facendo costruisce. Poi, certo, deve acquisire la capacità di essere anche un “doer”, magari in prima persona o attorniandosi di validi manager. Senza avere la capacità di fare, di scaricare a terra la visione, tutto resta un sogno astratto. E nessuno di noi desidera lavorare in aziende finite su un binario morto, in quella che gli americani chiamano la Death Valley dell’innovazione. Solo continuando a mettere in campo mentalità imprenditoriale, abilità operative, tecnologie e ingegneria italiana, continueremo a distinguerci in uno scenario sempre più competitivo. Dove ogni singola decisione presa da ogni singola persona potrà fare davvero la differenza».