Chi è un imprenditore e a cosa serve? Come convivono management e tecnocrazia? Cos’è il capitalismo “laburista” e quello organizzato? E quello digitale? Sapere chi sia davvero un imprenditore è un interrogativo essenziale per capire la natura dell’impresa, della creatura che dal lavoro dell’imprenditore di fatto prende vita. Nella storia della parola “imprenditore” – e nel chiarire che ruolo ricopra oggi nel mondo aziendale, finanziario e digitale – sono contenuti molti degli elementi che caratterizzano le imprese pre e post pandemia. Si capiscono le particolarità di Zuckerberg, Musk e Bezos. Si intuiscono le soluzioni per gestire l’innovazione (digitale e di meccanizzazione) e tutelare i posti di lavoro. Insieme di macchine e di vite, giusta miscela tra organismo e organizzazione, l’impresa viene plasmata a somiglianza dell’imprenditore. Ma anche dei manager di cui si circonda, veri alter ego dell’imprenditore.


Storico e docente all’Università Bocconi, Giuseppe Berta ha diretto l’Archivio Storico Fiat dal 1996 al 2002. Negli anni ha scritto numerosi saggi tra cui “Mirafiori. La fabbrica delle fabbriche”, “Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale”, “Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la comunità”. Leggere i suoi lavori equivale a una rassegna delle teorie dell’imprenditorialità e del management, esaminate entro l’involucro del quadro storico e culturale del loro tempo.

«L’effetto più visibile della nuova rivoluzione tecnologica – scrive Berta nell’introduzione de “L’enigma dell’imprenditore”, pubblicato nel 2018 – è consistito proprio nel riportare in piena luce la missione imprenditoriale per celebrarne la potenza creativa. Nel contempo l’innovazione è tornata a essere l’atto rivelatore della presenza dell’imprenditore nel processo economico». Il suo saggio ripercorre due secoli di storia della cultura economica, soffermandosi sui tentativi fondamentali di analizzare i caratteri e i compiti dell’imprenditorialità. Cantillon e Say, l’economia politica classica inglese e Marshall, Schumpeter e Sombart, costituiscono le tappe di un ragionamento che travalica i confini delle discipline e accomuna Economia, Storia e Sociologia.



Il professore osserva come l’imprenditore abbia impersonato una combinazione di attitudini e capacità in grado di generare una riuscita economica, sia individualmente che all’interno di un’organizzazione. L’imprenditorialità coincide con la virtù dell’intraprendenza personale: qualità da far crescere con tenace e orgogliosa affermazione delle doti individuali, impegno orientato al risultato e una dedizione particolare.



Fra le pagine emerge un pensiero:la virtù che qualifica la funzione imprenditoriale è la capacità di innovare. «Qual è il termine migliore per definire convenzionalmente l’imprenditore? Senza dubbio quello di “innovatore”». Nel capitolo dedicato all’imprenditorialità (come vocazione e come destino), il professor Berta spiega come il business leader differisca dalle altre figure sociali del sistema economico, perché diffonde l’etica della razionalizzazione e modella i diversi assetti organizzativi. «Investito di una serie di compiti, l’imprenditore non può che essere un eroe solitario. [...] Per Sombart (economista tedesco di inizio Novecento) si tratta di una guida che può essere assunta sempre e soltanto da pochi: da coloro che emergono con pensieri e decisioni proprie, che percorrono un proprio cammino e sono seguiti dai più». Essere imprenditore nel capitalismo maturo significa dunque esercitare una leadership carismatica, sebbene colui dal quale dipende il destino dell’impresa non è necessariamente il proprietario o il direttore.

Schumpeter, spiega Berta, non scorge nella brama della ricchezza e nella ricerca del benessere gli impulsi originari dell’imprenditore. Altra era la tempra degli «uomini che hanno creato l’industria moderna». Non si trattava certo di «piagnoni che si chiedevano continuamente e con angoscia se ogni sforzo a cui dovevano sottoporsi prometteva loro anche un sufficiente incremento di piacere». E se perseguire la ricchezza non spiega la leva imprenditoriale, quali aspetti della psicologia – si chiede Berta – andranno scandagliati per comprenderne i motivi profondi? Schumpeter ne segnala sostanzialmente due. «La soddisfazione derivante da una posizione sociale di potere. E poi la gioia di una funzione creatrice». Quest’ultima viene paragonata alla ricompensa che deriva dall’azione creatrice dell’artista, del pensatore o dello statista.


L’autore fa un ulteriore passo avanti quando, parlando della personalità dominante dell’imprenditore, lo paragona a una sorta di Übermensch, un superuomo che trasferisce il verbo nietzschiano di Zarathustra all’economia. «Di sicuro è un “forte” che propende a esercitare il suo dominio attraverso una prorompente energia. Possiede “un’eccedenza di energia”, che lo induce a un’attività inesausta, tale da costituire per lui uno “scopo in sé”. Per l’imprenditore il piacere dell’azione è una struttura della sua “realtà psichica”. In questo è simile al giocatore, al quale nessuna vincita riuscirà a distoglierlo dalla passione».



“L’enigma dell’imprenditore” traccia in sostanza un quadro sempre più umano dell’imprenditore, il quale non potrà ritirarsi nel pieno delle sue forze, ma abbandonerà il campo soltanto quando la sera scende sulla sua giornata. Quello è il momento in cui sentirà scemare dentro di sé le forze vive che l’hanno fin lì condotto al successo. «D’altronde – è la sintesi dell’autore – non si può essere imprenditori per sempre: la stagione della creatività non combacia con la vita fisica». Con qualche eccezione, ci verrebbe da dire, guardando agli imprenditori digitali del terzo millennio. O a quelli, come Fabrizio Di Amato, che circondandosi di persone di grande valore hanno capito per tempo come rendere complementari alcuni ruoli. Con un approccio più completo che unisce il “doer” al “dreamer”, l’anima manageriale e la visione imprenditoriale.