Ai tempi del Covid-19, il leader è colui che si dimostra capace di mobilitare le intelligenze e l’engagement delle persone. Per vincere quel senso di spaesamento che rallenta le nostre azioni e assorbe le migliori energie emotive. Promotore del concetto di resilienza, Pietro Trabucchi (Psicologo della Squadra Olimpica Italiana di Sci di Fondo ai Giochi di Torino 2006 e delle Squadre Nazionali di Triathlon), oggi si dedica alle Squadre Nazionali di Ultramaratona (24h, 100 km ed Ultratrail) nonché a numerosi atleti di sport di resistenza, tra cui il canottaggio. Autore di diversi libri – “Resisto dunque sono”, “Perseverare è umano” e “Opus” i più noti – Trabucchi è professore all’Università di Verona.

«Concetto importato nelle scienze umane – spiega Trabucchi – la resilienza è molto utile per spiegare una serie di fenomeni. In realtà ha un’origine ingegneristica e metallurgica: è la capacità dei metalli e delle leghe di reggere gli stress in termini meccanici. Dal punto di vista psicologico, è la capacità di tenere la motivazione costante ed elevata, nonostante i problemi e le difficoltà. Che al contrario hanno un’azione demotivante».

L’uomo per natura non è un centometrista, è un maratoneta. Possiamo applicare questa affermazione ai comportamenti che vanno messi in atto in questa delicata fase di gestione dell’emergenza? In che ambito si applica questa attitudine alla resistenza?

 

«La resilienza è un tema trasversale, presente nella vita di tutti i giorni. La identifichiamo con azioni precise, come quella di rialzarsi dopo una crisi, il non arrendersi, l’accettare le difficoltà. Personalmente me ne occupo dal punto di vista sportivo, in quanto la resilienza è uno dei fattori determinanti per il successo e la costruzione di grandi prestazioni. Ma lo sport è semplicemente un ottimo laboratorio che rende le condizioni del gioco estreme: c’è una grande similitudine con la nostra quotidianità, con le difficoltà di un manager, di un dipendente, di un disoccupato, di uno studente. I meccanismi con cui andiamo incontro al disagio sono gli stessi: se dobbiamo reggere la pressione di una scadenza, o affrontare un colloquio difficile, o gestire una crisi economica, cambia il setting, ma i processi utilizzati dal nostro cervello sono sostanzialmente gli stessi».



Tornando alla metafora della maratona, la motivazione è una componente fondamentale in questi periodi di attraversamento di una crisi. Dove trova un individuo le motivazioni per guardare avanti con serenità? Dove attinge uno sportivo, un manager, una persona abituata a ragionare per risultati?

«Oggi il contesto è destrutturato, la situazione è senza punti di riferimento solidi. Occorre allenare la nostra convivenza con l’incertezza. In altre epoche la motivazione arrivava dall’esterno: le aziende, le istituzioni politiche e religiose, i contesti familiari e scolastici fornivano punti di riferimento e orizzonti certi. Oggi invece gli obiettivi si spostano continuamente e non possiamo fare altro che imparare a motivarci da soli. L’essere umano ha imparato ad automotivarsi per una questione evolutiva. Prima dell’invenzione di arco e frecce, i nostri antenati per un milione e mezzo di anni sono sopravvissuti cacciando le loro prede grazie alla persistenza: armati di soli bastoni, inseguivano per ore antilopi, gazzelle e cervi – mammiferi velocissimi ma meno resistenti dell’uomo – fino allo sfinimento dell’animale per collasso cardiocircolatorio. Insieme a un’evoluzione fisica e biomeccanica, questa attività ha cambiato la nostra architettura cerebrale. Le aree motivazionali, legate alle zone prefrontali del cervello sono molto più sviluppate e attive. La capacità di mantenere un obiettivo per un tempo molto lungo è insita dentro di noi da millenni. Per questo la crisi in realtà è affrontabile se uno pensa alle risorse che ha dentro di sé per superarla».

Nel suo libro lei spiega che, nella vita e nella società di oggi, la nostra più intima natura viene ostacolata da elementi estranei e fuorvianti come il mito del talento o la sopravvalutazione del potere degli incentivi.

«Il talento non deve diventare un alibi, un invito alla passività: è una predisposizione, un pre-requisito. Ma poi bisogna darsi da fare, devo partire dal talento e lavorarci sopra. Nelle aziende vedo tanti giovani che si sentono privilegiati solo perché selezionati: dopodiché i manager si lamentano di fronte a risorse con l’atteggiamento di chi ha vinto la lotteria del destino... Credo sia un problema di curriculum educativo: in molte persone manca quella capacità di resistere alle tentazioni, l’esercitare quella che una volta si chiamava forza di volontà. L’impegno verso un obiettivo è ciò che fa la differenza. Noi viviamo in una cultura che valorizza la scorciatoia e questo fa rimanere inespresse e inapplicate risorse personali incredibili. Stessa cosa per ciò che riguarda gli incentivi. Mi rifaccio a ricerche fatte sul cervello delle persone: quando il sistema interno viene gratificato, si produce dopamina che rallenta il ritmo della sfida. Ma il mondo sta alzando l’asticella, spesso gli incentivi non bastano per gli standard di competizione attuale. A certi livelli gli incentivi devono essere più emozionali che economici: una persona deve vedere oltre, coltivare una motivazione intrinseca, attingere al proprio interno più che all’esterno».

Operando in una multinazionale, come si riesce a lavorare sulla propria autostima, anche nei momenti critici?

«Spesso non abbiamo un buon rapporto con i nostri limiti. Ma quando li frequentiamo, mettendoci alla prova, riusciamo a rendere più solida la nostra autostima. È un tema di obiettivi realistici: se un maratoneta ha aspettative altissime, quando fallirà cadrà dall’alto. Anche tra i giovani talenti c’è questo rischio: se i manager non dosano gli obiettivi progressivamente, e alimentano sogni sfrenati (così come avviene nel meccanismo subdolo dei social network), i giovani non riusciranno a generare gli anticorpi contro la frustrazione. E alla fine la loro autostima crollerà. I capi devono essere d’esempio, sviluppando in sé la propria capacità di far durare a lungo la motivazione, nonostante ostacoli, difficoltà e problemi. Se all’interno di un team il manager dimostra resilienza e attitudine a perseverare, ogni elemento della squadra sarà spinto a lavorare sulla propria personale motivazione: se tiene duro lui, possiamo farlo anche noi».



Lei parla anche dell’importanza di costruire un sistema sano di relazioni all’interno dei team. Quali sono i passi per generare un modello che funzioni?

«Porto la mia esperienza di team nell’ambito delle spedizioni alpinistiche, dove il gruppo si coagula intorno a un obiettivo sfidante. Se viene a mancare quella che chiamiamo la “manutenzione delle relazioni”, può crollare tutto. Certe spedizioni falliscono solo perché le persone entrano in conflitto. Gli esseri umani si influenzano a vicenda per ciò che riguarda lo stato emozionale: il capo arcigno o assente demotiva i collaboratori, una persona presente ed empatica cambia il vissuto emozionale. Attenzione, non sto proponendo come soluzione l’ingenua visione del capo che diventa il miglior amico dei collaboratori. Sto dicendo, come ci insegnano le neuroscienze, che la motivazione del mammifero umano è influenzata dalle relazioni: e un bravo capo sa costruire e mantenere con i collaboratori relazioni significative e personali pur salvaguardando norme e ruoli, esattamente come fa con i suoi atleti un esperto coach sportivo. Le persone vanno ascoltate, occorre occuparsi seriamente di loro. Non per semplice “buonismo”; ma perché se non lo fai il team non ce la farà a raggiungere obiettivi sfidanti».

Chiudiamo tornando allo sport. Perché gli atleti professionisti continuano a essere un ottimo modello di riferimento, anche per le organizzazioni complesse? Che cosa dobbiamo imparare dalle dinamiche sportive?

«Alcuni atleti sono un buon modello: per compiere una prestazione, sono capaci di mantenere attive le loro energie nel tempo, anche di fronte a deprivazioni fisiche e carenze metaboliche. Porto dei casi personali. Seguire gli atleti paralimpici, con le loro storie di disabilità e resilienza, è una costante iniezione di fiducia nel genere umano. Chi più di loro può essere d’esempio per sapersi rialzare dopo un trauma? Nel canottaggio invece l’aspetto mentale, lo spirito di resilienza e la fiducia nel team aiuta gli atleti italiani a rappresentare un’eccellenza mondiale, nonostante la nostra base fisica sia meno adatta rispetto alla struttura atletica dei canottieri australiani o neozelandesi. Infine il biathlon, una disciplina dove velocità e potenza (della componente sci di fondo), unite a rilassamento e precisione (tiro a segno con la carabina) formano un cocktail molto interessante in fatto di resilienza. Prendiamo esempio dalle atlete italiane: nel biathlon femminile, le nostre ragazze sono tra le più forti al mondo!»