Sono passati più di quarant’anni dalla grande crisi petrolifera che, per effetto dell’embargo decretato dall’OPEC nell’ottobre 1973, fermò le auto private negli Stati Uniti e nei Paesi alleati in Europa, Italia compresa. Il governo italiano varò un decreto sull’austerity che imponeva rincari per i carburanti e per il gasolio da riscaldamento, ma anche una sorta di “coprifuoco”, molto simile al lockdown che di recente abbiamo vissuto, per limitare i consumi di energia. Ogni domenica in bicicletta equivaleva a un risparmio di 50 milioni di litri di carburanti.

Negli anni successivi – ancora memori di provvedimenti subìti come il taglio dell’illuminazione pubblica, la riduzione degli orari dei negozi, la chiusura anticipata per cinema, bar e ristoranti, la sospensione alle 23 dei programmi televisivi – osservatori e politici dell’epoca ipotizzarono come via d’uscita un accantonamento globale del petrolio come fonte energetica, in favore del carbone, non soggetto ai voleri dell’OPEC. Fortunatamente abbiamo visto che tutto questo non è accaduto: non solo il carbone non ha sostituito il greggio, ma il tema della sostenibilità e dell’attenzione ai cambiamenti climatici ha conquistato spazi sempre crescenti.

Oggi più che mai, nel percorso di uscita dalla crisi sanitaria ed economica del Covid-19, che ha analogie con lo shock petrolifero degli anni Settanta per via delle restrizioni alla mobilità e all’impatto economico, la sostenibilità è al centro di qualsiasi strategia di ripartenza industriale. Il termine è in uso non solo nelle aziende a tutti i livelli e fra i politici di ogni grado: nelle università, già prima del coronavirus, anche i futuri manager hanno iniziato a ridisegnare i paradigmi di sviluppo per il terzo millennio. Perché la transizione energetica è un percorso irreversibile, un nuovo modello di vita quotidiana: non una semplice risposta ai cambiamenti climatici. La pandemia ci ha costretti da un lato a reagire sotto l’aspetto economico, immaginando strategie per tornare a far crescere il nostro PIL. Dall’altro, a riflettere sulla cultura e sul tipo di pensiero con cui dovremo sostenere i prossimi decenni.

La sfida ora è quella di coniugare gli standard di benessere con la transizione energetica, passando da fonti emissive, esauribili e concentrate (gas e petrolio) a fonti diffuse come le rinnovabili. Ma anche, in ottica di economia circolare, alla realizzazione di nuovi impianti di recupero e riciclo dei rifiuti e di impianti per la produzione di biocarburanti per la mobilità e l’uso industriale. La risposta infatti alla riduzione dell’inquinamento e ai cambiamenti climatici non può essere “tutti a casa in lockdown”, ma una sintesi tra i modelli di consumo classici e una diversa direzione, rivolta alla sostenibilità. Attingendo alle lezioni che la storia ci ha impartito, così come la politica dopo la seconda guerra mondiale è scesa in campo cambiando direzione – e facendo intervenire i governi e le istituzioni invece dei militari – oggi guardiamo con estremo interesse alle soluzioni che l’Europa ci propone: il Recovery Fund e Innovation Fund, se gestiti bene, sono strumenti utili per reindirizzare lo sviluppo economico. Stessa cosa si può dire del Green Deal della Commissione europea, nato con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità carbonica in Europa entro il 2050. Investire in tecnologie pulite, come l’idrogeno o in tecnologie di riciclo per supportare la produzione di prodotti realizzati con materie prime a base biologica o di prodotti chimici dal riciclo di scarti e rifiuti, implica in parallelo un’attenzione alla competitività sugli scenari internazionali, sapendo che in certe aree del mondo il focus alla sostenibilità non sempre è prioritario.

Guardando fra le strategie di Maire Tecnimont, anche il Modello dei Distretti Circolari (per la riconversione green di siti industriali tradizionali, di cui parleremo in un articolo all’interno di questo numero) è una risposta efficace, a patto che le istituzioni si muovano in sinergia con le imprese. Il progetto dei distretti – illustrato dal nostro presidente Fabrizio Di Amato durante gli Stati Generali con il premier del Governo Italiano Giuseppe Conte – è un esempio di risposta resiliente, di rinnovata visione a beneficio di politiche non più a breve termine, ma con respiro nel medio-lungo periodo. E ciò che NextChem (società del Gruppo Maire Tecnimont per la transizione energetica) sta progettando a Marghera, a Livorno e in prospettiva a Taranto va in questa direzione. Credo che la messa a terra dei progetti – coinvolgendo un’area specifica, le istituzioni nazionali e locali, la cittadinanza – sia il giusto approccio per far sì che non resti unicamente un’iniziativa di carattere industriale.

Per questo in Maire Tecnimont puntiamo su una visione globale, che non guardi a una rosa ristretta di tecnologie, ma piuttosto a un ampio spettro di innovazioni non convenzionali, così da essere pronti verso un mondo che cambia in continuazione. In NextChem consideriamo questa politica come una ricchezza, una forma di resilienza (tecnologica e ambientale) per prepararci al futuro, per prevedere scenari e rischi sistemici. Sarebbe più facile investire su tecnologie convenzionali, puntare sul petrolchimico: la nostra è invece un’operazione di coraggio che siamo certi verrà premiata nel tempo. Già oggi possiamo produrre idrogeno utilizzando rifiuti a un costo competitivo con i fossili: in un’ottica di produzione completamente green da qui a 20-30 anni, si risolverà il problema della gestione dei rifiuti urbani. Questo implica la convergenza di mondi diversi: il mondo dei rifiuti, il mondo industriale e il mondo della politica. Per implementare certe soluzioni bisogna mettere insieme attori diversi. L’idea potrebbe essere quella di creare cluster regionali, territoriali, nei quali risolvere da una parte il problema dei rifiuti, dall’altra produrre idrogeno da utilizzare anche per la mobilità.

La resilienza (tema centrale di questo numero di EVOLVE) resta una caratteristica fondamentale nel disegnare le strategie e i modelli del futuro. I primi bilanci sulle attività di smart working sono decisamente positivi: una modalità verso la quale il nostro Gruppo era strutturato già da qualche anno, e che proprio per questo non ha portato a un calo della produttività. Lo smart working ci parla di aziende del futuro. E se guardiamo al Green Deal Europeo, con l’orizzonte “emissioni zero” entro il 2050, non possiamo non pensare ai nostri giovani. In quella data saranno nel pieno della loro vita, preoccupati ancora più di noi dei temi dell’ambiente e della sostenibilità: per questo vanno coinvolti fin da subito nelle decisioni da prendere per tracciare le politiche di domani. Argomento che si collega alla mobilitazione emotiva innescata dal fenomeno coronavirus. Questa spinta verso il cambiamento ha aumentato l’attenzione ai temi energetici: un interesse attivo che va mantenuto e fatto crescere nel tempo. Se da tutta questa emergenza economico-sanitaria dobbiamo portarci a casa un insegnamento per il futuro, suppongo sia quello del rischio sistemico. Non possiamo tornare al pragmatismo dello status quo. Così come il progredire delle alluvioni e dei fenomeni atmosferici è un dato purtroppo sempre più reale, abbiamo visto che anche una pandemia può incidere profondamente sui nostri modelli di vita e di produzione. Non c’è dubbio che la ripresa economica resti una priorità: ma tutto questo non può continuare a svolgersi a scapito della sostenibilità ambientale.