Daniela Bandera, sociologa, è amministratrice delegata di Nomesis e già presidente nazionale di EWMD Italia (European Women’s Management Development). È autrice del saggio “L’impresa coevolutiva, le quattro sfide del management”, teoria che combina suggestioni provenienti dalle diverse scuole della sociologia organizzativa, così come da altre scienze e discipline.


Nel suo libro “L’impresa coevolutiva” lei lancia al management quattro grandi sfide: da che punto un’organizzazione può partire per conoscere il proprio grado di coevolutività?


Per capire le sfide del management è utile chiarire cosa si intende per coevoluzione. La coevoluzione è il risultato di uno sforzo negoziale messo in atto dall’organizzazione dell’impresa per adattarsi, e, simultaneamente, influenzare l’ambiente organizzativo esterno. In questo suo agire l’impresa negozia con gli attori presenti nel suo campo d’azione e crea forme di interdipendenza, co-adattamento con l’obiettivo di realizzare giochi win-win.


La coevoluzione è quindi un processo che coinvolge tutta l’impresa, in grado di produrre cambiamenti non solo adattivi o reattivi, ma capaci di incidere sul contesto e su tutte quelle variabili che possono influenzare la vita dell’impresa stessa, attraverso azioni che possono coinvolgere anche più aziende. Questo processo può contemplare tutta una gamma di opzioni possibili compresa la delocalizzazione, cioè la ricerca di un ambiente meno ostile quando il contesto in cui l’organizzazione opera depotenzia gli sforzi che vengono compiuti per realizzare gli obiettivi dell’impresa.

La coevoluzione è quindi un processo razionale e volitivo, di orientamento delle risorse economiche, energetiche e psicologiche che muovono l’impresa verso l’obiettivo vitale della tenuta dei risultati nel tempo (senso costante della direzione) e dell’innovazione (senso della scoperta). Per creare le condizioni abilitanti il management deve motivare e mantenere alto l’engagement, evolvere e coevolvere nel proprio ambiente organizzativo. È importante sottolineare che quando si parla di ambiente organizzativo non ci si riferisce all’ambiente geografico in cui l’impresa è inserita ma all’ambiente managerializzato.

Il contesto in cui le imprese co-evolvono o tentano di co-evolvere è caratterizzato dalla velocità e imprevedibilità del cambiamento. Trovo corretto definirlo para-caotico per distinguerlo dai contesti statici o dinamici che hanno caratterizzato i periodi precedenti a quello che stiamo vivendo. Quanto detto finora rende chiaro il fatto che executive e manager non possono più vivere di rendita su quanto consolidato attraverso l’esperienza, devono quindi cogliere nuove sfide.

1) Passare dal change al coevolution management. Il change management affronta il cambiamento come se fosse una eccezione, il coevolution management invece governa il cambiamento costantemente, perché il cambiamento non è una porta che si apre e poi si chiude ma è continuo. Quindi è necessario pensarlo come permanente nell’impresa e come tale gestirlo.


2) Managerializzare l’ambiente organizzativo per gestire l’impresa a 360 gradi: seguendo i ragionamenti e le suggestioni dei teorici del SAFs (Strategical Action Fields) nel mio libro suggerisco una visione dell’organizzazione che inglobi campi di azione comuni con attori sociali ed economici del proprio ambiente organizzativo. In questo modo l’impresa estende la propria capacità d’azione al di fuori dei propri confini per creare un ambiente organizzativo che può essere managerializzato, in grado di produrre stimoli e azioni che possano sostenerla nel raggiungimento dei propri obiettivi. In questo modo coevolvere non significa adeguarsi, ma interagire, all’interno di un campo strategico d’azione, con gli attori che vi operano e che possono influenzare con le loro azioni la vita dell’impresa, sviluppando relazioni collaborative finalizzate al raggiungimento di comuni obiettivi con giochi win-win.


3) Creare il “brodo di coltura” di una intelligenza collettiva
, quindi lavorare sull’atmosfera organizzativa e la cultura per potenziare, attraverso interventi organizzativi, i fattori abilitanti della coevoluzione.


4) Modello di leadership Smart che possa essere collettivo, connettivo e coevolutivo, utile per neutralizzare il “gene egoista” che mina alla base le forme di leadership necessario alla coevoluzione. 

Oltre all’impostazione teorica del processo di coevoluzione, le imprese hanno però la necessità di capire in termini più concreti il proprio livello di coevolutività. Nel libro riporto i risultati di una indagine su 150 aziende, condotta per comprendere il livello di coevolutività e gli aspetti che caratterizzano le imprese molto, abbastanza, poco o per nulla coevolutive. Dall’elaborazione dei dati raccolti emerge che i fattori discriminanti sono da un lato la tipologia dell’approccio strategico utilizzato nella definizione degli obiettivi e, dall’altro lato, le caratteristiche specifiche del modello e dello stile di leadership.

È coevolutiva l’impresa che nel processo di definizione delle strategie contempla non solo gli aspetti interni alla propria organizzazione o il mercato esterno e i competitor, ma si interroga su una molteplicità di fattori che possono influenzarla – dai fattori sociali a quelli politici – e mette in atto delle strategie adeguate per poterli influenzare. Nella realtà pratica si può comprendere se il management è orientato alla coevoluzione invitando i manager a disegnare il campo d’azione. Se nel campo d’azione appaiono solo gli elementi caratterizzanti le relazioni economiche dell’impresa (clienti, collaboratori, fornitori, prospect) ci si trova di fronte ad una impresa scarsamente coevolutiva, se appaiono invece anche altri soggetti che ne influenzano la vita e i risultati (come ad esempio le istituzioni), è abbastanza orientata alla coevoluzione. La differenza viene fatta quando nel campo d’azione vengono inseriti anche quei fattori immateriali che la condizionano come la cultura, il clima organizzativo, la qualità delle relazioni territoriali, la reputazione: tutti aspetti immateriali del contesto in grado di modificare la finalizzazione e i risultati.

L’analisi organizzativa ha permesso di individuare un ulteriore aspetto che permette di misurare l’orientamento alla coevoluzione: le caratteristiche proprie del modello di leadership e del mix delle funzioni di leading e managing all’interno dei diversi ruoli apicali. Una forte specializzazione del management nelle attività espressive (leading) e, dall’altro lato, nelle attività funzionali (managing) produce livelli di rigidità organizzativa che rende l’impresa scarsamente orientata alla coevoluzione. Per contro, in quelle realtà in cui leading e managing sono distribuite in modo equilibrato sia orizzontalmente – nelle funzioni manageriali di primo livello – e sia verticalmente, permeando tutta la struttura organizzativa, graduando il mix a seconda del livello della funzione, le imprese sono più flessibili e più in grado di coevolvere con l’ambiente organizzativo.

Il tema dell’intelligenza collettiva ci introduce a uno scenario futuro di grande connessione. In che modo il singolo può fare appello alle risorse intellettuali della comunità di riferimento?

“Una organizzazione intelligente è una organizzazione aperta a una circolazione continua del sapere e del saper fare a livello sociale, scientifico e tecnologico tanto da rendere il sapere una nuova infrastruttura” (P. Lèvy, M. Serres, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 1996). Vorrei sottolineare in questa definizione di Lèvy e Serres l’idea che l’organizzazione intelligente è aperta e non chiusa, quindi in grado di metabolizzare le informazioni che arrivano dall’esterno ma anche di filtrarle per assorbire quelle utili al proprio obiettivo.

Ma apertura significa anche recepire le intelligenze multiple che possono stimolare riflessioni e ulteriori aperture. Gli strumenti di connessione di cui disponiamo ci permettono ora esperienze inedite anche in campi che sembravano preclusi alle imprese: penso al mondo delle arti che possono dare stimoli per pensieri out of the box.

Il singolo individuo, frequentando la società che lo circonda nelle sue molteplici sfaccettature, dovrebbe esporsi a stimoli che possono essere anche distonici rispetto al proprio lavoro, essere curioso. Questo gli permette di assorbire il contesto, proprio perché i processi che noi mettiamo in atto quando ci confrontiamo con “l’altro da noi” si basano sull’attenzione selettiva. Ci focalizziamo sugli aspetti a cui assegniamo una dotazione di senso, in relazione al nostro vissuto, quindi anche su aspetti che possono essere utili all’attività lavorativa. Pensiamo a come oggi le nuove forme di lavoro Smart rendono l’esplorazione dell’ambiente e delle sue opportunità possibile: è un passaggio che permette all’individuo di aprirsi alle risorse intellettuali della comunità e introiettarle selettivamente.

Qui poi entra in gioco l’organizzazione: un insieme di collaboratori geniali, informati e competenti non sempre produce risultati altrettanto geniali. Quando si dice che il sapere deve diventare una nuova infrastruttura, ci si riferisce al fatto che l’impresa apprende tramite le persone. Ma per rendere il sapere “utile” a perseguire i propri fini, ci deve essere una azione volitiva del management che si concretizza in un processo aziendale che chiamo SEVO, perché è l’acronimo delle azioni necessarie per sedimentare la conoscenza individuale e renderla patrimonio collettivo: selezionare, elicitare, valorizzare e organizzare le conoscenze. Questo rende la conoscenza incorporata nelle persone, fruibile e impiegabile nella vita organizzativa e trasmissibile.

Quanto incide in un’impresa la capacità di visione dei suoi manager?

La capacità di visione dei manager e dei ruoli apicali è fondamentale per il successo dell’impresa. Parafrasando Seneca: non c’è vento favorevole per chi non sa dove andare e il manager deve sapere dove andare e dove portare la propria impresa. La visione indica la strada da seguire. La visione, per essere efficace, non può essere una prerogativa dei singoli manager ma il risultato di un percorso profondo nell’identità organizzativa: perché la visione determina la missione e le caratteristiche del management model e dei processi organizzativi. Per questa ragione deve rappresentare, anche nella sua rappresentazione verbale, il senso della catena del valore che caratterizza e distingue la singola impresa. In un contesto come quello attuale, di grande complessità, la visione deve rappresentare lo sguardo lungo e strategico, essere collettiva e condivisa. Ciò vale soprattutto se l’obiettivo è la coevoluzione. In questo caso c’è la necessità che la visione rappresenti in modo adeguato l’apertura all’esterno e la consapevolezza delle interazioni che caratterizzano tale apertura.

Purtroppo non sempre le imprese focalizzano la propria visione: quando questo avviene, prevalgono le visioni individualistiche dei manager che non sempre rispondono all’esigenza di integrazione e finalizzazione organizzativa. Altre imprese elaborano visioni superficiali che di fatto non sono utili per impostare una strategia adeguata alle complessità da affrontare. Altre hanno un approccio estetico all’elaborazione della visione aziendale: per quest’ultime la visione è un involucro spendibile all’esterno e attrattivo ma che non ne rappresenta l’intima essenza.

Cosa avviene quando manca una visione solida? In genere la finalizzazione è meno efficiente e la coesione sociale non è in grado di produrre la forza necessaria per cogliere le sfide che permettono alle imprese di crescere e prosperare.



Per evolvere senza perdere la propria identità, fino a che punto un’azienda si deve differenziare?

Nelle imprese sono presenti fenomeni di isomorfismo istituzionale. Ma nell’approccio coevolutivo la corretta gestione dei confini permette a imprese dello stesso tipo di mantenere una specifica identità distintiva. Distintività e differenziazione vanno di pari passo. La distintività rappresenta l’essenza specifica che si costruisce nel divenire imperfetto fatto di passione, sentimenti, percezioni e razionalità, errori e successi della vita organizzativa. Lo sviluppo dei sistemi attraverso la differenziazione avviene invece tramite auto-riferimento. Per realizzare il processo di differenziazione, le organizzazioni che intendono coevolvere devono quindi essere in grado di operare su tre livelli: quello cognitivo delle conoscenze, delle esperienze interne ed esterne dei collaboratori e del core business.

Il livello di differenziazione di un’organizzazione non è dato dalla sommatoria dei tre livelli di differenziazione ma dall’interazione e dalla dialettica tra le diverse strategie che li qualificano. Questo fa sì che si possano distinguere dai competitor e guadagnarsi una riconoscibilità specifica nell’ambiente in cui operano. Quindi proprio le aziende che hanno un’identità forte possono avere un forte livello di distintività e di differenziazione. Viceversa, perseguire un livello forte di distintività e differenziazione permette la costruzione di una identità forte.


Daniela Bandera

Sociologa, è autrice di articoli e saggi sui temi delle organizzazioni del lavoro e del loro cambiamento. Dal 1989 è co-fondatrice di Nomesis – Ricerche e Soluzioni di Marketing di cui è amministratore delegato. Nel 2019 ha pubblicato il libro "L’impresa coevolutiva" (Franco Angeli). Esperta di smart working, conduce ricerche per organizzazioni pubbliche e private. Oltre a essere Innovation Manager riconosciuta dal MISE, è Past President di EWMD Italia – European Women’s Management Development International Network e Co-responsabile del Gruppo Tecnico "Le Imprenditrici" di AIB.